Return to Sezione 4 Gli articoli degli anni 1972-73 sul campo unigravitazionale. Premessa.

C) La Gravità e le altre “forze”. (Parte seconda).

C) La Gravità e le altre “forze”. (Parte seconda).

 

Articolo tratto da:

Tempo nuovo, Napoli 1973, nn.5-6:Il campo uni gravitazionale

 LA GRAVITA’ E LE ALTRE “FORZE” (Parte seconda).

di Renato Palmieri

Nella fisica attuale i metodi per le misure di massa sono quanto di più improprio si possa immaginare sul piano teorico. L’apparente precisione delle determinazioni deriva solo dall’uso di un certo metro convenzionale che lascia di solito quasi inalterati i rapporti con una massa assunta come campione: sempre però che le masse confrontate siano in condizioni strettamente analoghe rispetto a vari fondamentali fattori, come densità, magnetismo, elettricità, distanza da altre masse, ecc. Variando questi fattori, è necessario tenerne conto modificando le formule con vari accorgimenti empirici, coi quali si ottengono risultati approssimativi anche se – di norma – sufficientemente esatti ai fini pratici. Per gli usi correnti, infatti, non sono indispensabili i valori assoluti degli elementi in gioco, bastando generalmente la conservazione dei valori di rapporto entro determinati limiti di approssimazione (15).

Di tutti i procedimenti comunemente usati per misurare le masse, l’unico che abbia validità teorica è proprio quello che la fisica moderna ha rinnegato nella teoria, per risolvere le insanabili contraddizioni del formalismo relativistico, e che è legato all’antico concetto della quantità di materia: la massa è all’origine nient’altro che l’insieme numerico delle particelle elementari (fotoni) costituenti un corpo, dimodoché il suo valore effettivo risulta dal prodotto della densità corpuscolare per il volume. Le formule convenzionali che misurano le masse dai loro effetti (forze, accelerazioni, velocità, energia) contengono tutte degli errori di base che ne limitano la validità entro ambiti particolari, impedendo una visione corretta ed universale dei fenomeni.

Così la più semplice e famosa delle formule della Dinamica F = ma (secondo principio di Newton) è empirica ed approssimativa, non solo perché considera la massa soggetta m come inerte e non contribuente a F, ma soprattutto perché non tiene conto del fatto che il campo della massa che è sorgente di F (chiamiamola mo ), applicato a m , ha un valore totale che varia con l’estensione spaziale di m . Per chiarire la questione, di fondamentale importanza teorica, ricorriamo a una scala esemplificativa. Supponiamo che il campo di mo abbia il valore 32 come misura dell’intensità puntuale applicata alla parte volumetrica unitaria di m più vicina: per le parti via via più lontane tale intensità decresce progressivamente secondo una scala determinata dalla distanza, in rapporto ai caratteri particolari del campo (in termini convenzionali: gravitazionale, elettrico, magnetico, nucleare forte, nucleare debole, ecc.). Esprimiamo in numeri una delle possibili scale, per un valore di m (a densità uniforme) variabile da 1 a 32. Se queste parti unitarie si estendono tanto nello spazio rispetto al campo di mo , che il valore puntuale di questo decresca molto rapidamente attraverso m , si abbia la seguente scala dei valori parziali, totali e medi del campo applicato per successivi incrementi di m (rimanendo invariata la distanza tra mo e la superficie di m ) (tabella e fig. 1):

Parti unitarie…………. Campo parziale….………….Campo totale……………Campo medio

…….di m………………………di mo……………………….di mo………………………di mo

 

………1………………………….32………………………….32………………………….32 / 1 = 32

………2………………………….28………………………….60…………………………60 / 2 = 30

………3………………………….21…………………………..81……….………………..81 / 3 = 27

___________________________________________________________________________________

………4………………………..…11………………………….92………………………..92 / 4 = 23

………5-8…………………………4………………………….96……………………….96 / 8 = 12

……..9-16…………………………3………………………….99………………………99 / 16 = 6,1875

…….17-32………………………..1………………………….100……………………100 / 32 = 3,125

 

Fig.1

  La scala del campo medio dì mo , che si ottiene dividendo il campo totale per il numero delle parti di m cui risulta applicato, coincide con quella delle accelerazioni subite da m per effetto di mo . L’accelerazione è proporzionale al campo medio applicato: essendo F il campo totale, ne viene a = F/m .

Mentre si definisce concretamente il significato del secondo principio della dinamica, pur nei limiti della sua unidirezionalità, diviene peraltro evidente l’interpretazione di comodo che ne dà la fisica ufficiale, la quale lo legge in maniera opposta a seconda che lo applichi alla gravitazione cosmica (F proporzionale alle masse, a costante) oppure alle altre “forze” ritenute non gravitazionali (F non proporzionale, a inversamente proporzionale alle masse). È facile osservare dalla tabella che fino a un certo limite, segnato dalla linea orizzontale, il campo totale di mo cresce quasi proporzionalmente alla massa m ; pertanto il campo medio e l’accelerazione subita rimangono quasi invariati (diminuendo solo di poco). Il che è quanto si verifica, come abbiamo visto, nella gravitazione siderea di corpi di piccola massa rispetto a corpi di grande massa (esperimento di Galileo, “tubo di Newton”, meteoriti). Al di là di quel limite, invece, è il campo totale a restare quasi invariato, aumentando di poco col crescere della massa: il campo medio e l’accelerazione subita risultano, per conseguenza, quasi inversamente proporzionali alla massa. S’è visto che ciò si riscontra nei fenomeni in cui le masse interagenti non sono troppo squilibrate tra loro, ossia in quelli di tipo definito comunemente non gravitazionale.

L’analisi della tabella rivela fatti di estremo interesse, che stabiliscono una perfetta unità tra le apparentemente disparate interazioni macro- e microcosmiche, confermando il discorso svolto finora. La fascia che sta al di sopra della linea orizzontale può definirsi di “quasi proporzionalità di F con m“. In essa m risulta molto ristretta spazialmente nel campo di mo e il suo peso (campo totale di mo applicato a m , prescindendo da quello inverso) è quasi proporzionale alla stessa m : 32, 60, 81 stanno tra loro quasi come 1, 2, 3; l’accelerazione (32, 30, 27) resta quasi invariata col crescere di m (gravi di Galileo, “tubo di Newton”, meteoriti). Gli eventi prevalenti in questa fascia sono di “collisione” di m verso mo , a causa delle alte accelerazioni impresse da mo , superiori alle accelerazioni rivolte verso i campi esterni.

La fascia che si estende al di sotto della linea orizzontale presenta invece il carattere di “quasi non proporzionalità di F con m“. In essa m è sufficientemente estesa nel campo di mo , perché il valore totale di questo cambi di poco (92, 96, 99, 100) al crescere di m (4, 8, 16, 32); l’accelerazione (23; 12; 6,1875; 3,125) risulta perciò quasi inversamente proporzionale a m. Gli eventi prevalenti sono di “fuga” di m da mo , perché le sempre più basse accelerazioni impresse da mo in direzione del proprio centro diventano inferiori a quelle che m subisce in opposta direzione dai campi esterni. Fenomenicamente quindi tali eventi appaiono “repulsivi”: mo sembra “respingere” m . Così si spiega la repulsività manifestata da particelle cui si attribuisce un segno eguale (elettroni tra loro, protoni tra loro, ecc.), ma che si comportano in questa maniera per il solo fatto di avere masse identiche o quasi: lo stesso fenomeno – s’è già detto – si manifesta tra le stelle, a causa dell’equilibrata attrazione di masse analoghe in tutte le direzioni.

La linea orizzontale, infine, rappresenta il valore limite di m , non eccessivamente inferiore a mo , per il quale il campo totale F di mo appare “quasi proporzionale” a m in confronto con masse minori, ma “quasi non proporzionale” a m in rapporto a masse maggiori. Gli eventi prevalenti sono ora di “orbitazione” di m rispetto a mo , per il raggiunto equilibrio tra accelerazioni dirette verso mo e quelle rivolte verso i campi esterni: così si comportano pianeti, satelliti, asteroidi rispetto ad astri maggiori e nel microcosmo elettroni rispetto a protoni, ecc. Ribadisco in ogni caso che qui si parla di prevalenza di eventi di un determinato tipo, poiché particolari condizioni di velocità e direzione nei moti gravitazionali possono produrre risultati differenti dal quadro generale.

In quella linea limite si trova anche la spiegazione della cosiddetta “barriera di potenziale”, che la fisica scolastica ha inventato per giustificare lo spartiacque tra “attrattività” e “repulsività” delle forze nucleari (16). Al di là di certe distanze reciproche le interazioni tra particelle di masse non dissimili si manifestano in generale con eventi di fuga: solo in rari casi di particolari direzioni e velocità traslatorie, che portano tali particelle a brevissima distanza l’una dall’altra, esse finiscono col subire reciprocamente un’intensità di campo prevalente su quella dei campi esterni e pertanto collidono (ecco il “pozzo di potenziale”!) o entrano in mutua orbitazione, invece di fuggirsi. I passaggi della “barriera di potenziale” in un verso o nell’altro, benché rari, non devono sorprendere più di quanto non ci meraviglino eventi consimili che si possono verificare su scala macrocosmica (fughe per valori di m nella fascia di proporzionalità o collisioni e orbitazioni per valori di m nella fascia di non proporzionalità).

Non c’è quindi alcun motivo, per spiegare l’orbitazione reciproca di due protoni nel nucleo di elio (particella α, o elione), di ricorrere a una “forza nucleare” attrattiva, agente nel “pozzo di potenziale” e diversa da quella che, oltre la “barriera di potenziale”, si chiama “elettrostatica” e indurrebbe gli stessi protoni a respingersi, vincolando viceversa l’elettrone al protone: un pauroso guazzabuglio, equivalente a pensare che in un sistema di stelle binarie agisca una forza differente da quella gravitazionale che lega pianeti e satelliti a un astro maggiore. Il più difficile equilibrio di tali sistemi binari, e spesso anche multipli (come nel nucleo degli atomi complessi), viene di norma stabilizzato da esterne orbitazioni di corpi o corpuscoli, meno attrattivi singolarmente ma prevalenti di numero, come neutroni, mesoni, elettroni, ecc., oppure – nel macrocosmo – stelle satelliti, sistemi planetari, asteroidi, polvere cosmica. Mancando questa “nube” di campi circostanti, l’equilibrio è decisamente instabile, come quello di due elettroni nel cosiddetto “positronio”, assurdamente ritenuto come la coppia di un elettrone negativo e di uno positivo!

Concludendo l’analisi della tabella, osserveremo che, se le 32 parti unitarie di m si trovano invece condensate in uno spazio molto ristretto del campo di mo , sì che il campo parziale di mo vari di poco per ciascuna parte di m (per es., tra i valori 32 e 28), si troverà un campo totale applicato elevatissimo (campo medio 30 per 32 parti di m = campo totale 960), quasi proporzionale alla massa di m : l’accelerazione impressa è pari a 30, ossia quasi eguale a quella di una parte isolata di m . Si precisa così sempre più il senso di tutta la presente indagine, che si compendia nell’influenza passiva della densità, ossia della densità della massa soggetta, la quale contribuisce con la propria estensione spaziale al valore efficace del campo agente. L’interazione gravitazionale coesiva tra le varie parti di m , con le accelerazioni reciprocamente attrattive che le coagulano intorno al comune centro di massa, riducono il valore dell’accelerazione complessiva diretta verso mo a un valore medio, corrispondente al campo medio applicato di mo .

Se all’influenza passiva della densità aggiungiamo quella attiva, ossia l’effetto della densità di mo , anch’esso intensificatore del valore di campo (17), e consideriamo che questo duplice effetto si manifesta nei due sensi, assumendosi cioè come campo agente sia mo rispetto a m sia m rispetto a mo , ci rendiamo perfettamente ragione del fatto che la formula newtoniana della gravitazione, priva di ogni riferimento alla densità, dia valori insignificanti per le interazioni nel microcosmo nucleare, ove la densità è altissima (18).

In realtà, l’interattività gravitazionale di una certa massa misurata in assoluto (massa come quantità di materia: numero delle particelle elementari costituenti un corpo) varia enormemente, negli effetti di “forza” avvertita da altre masse, a seconda delle condizioni di aggregazione della massa stessa e anche di quelle soggette: il che ha indotto a credere erroneamente che le “forze” elettriche, magnetiche, nucleari siano cosa del tutto diversa dalla gravitazione macrocosmica e che, accanto e oltre alla massa e alla sua prerogativa di sorgente gravitazionale, esistano in natura “cariche” elettriche o magnetiche, “forze di scambio”, interazioni di vario tipo e nome, antimateria, ecc. Di tale interattività i fattori fondamentali sono, in aggiunta alla massa e alla distanza – già presenti nella formula di Newton -, la densità della materia e il suo orientamento ondulatorio (“magnetismo”), che invece quella formula ignora completamente. Ma anche la presenza di massa e distanza nella legge newtoniana è falsata da ragionamenti erronei o limitati dalla incomprensione di fenomeni importantissimi. Per quanto riguarda la massa, stiamo appunto smantellando la presunzione di proporzionalità della gravità alle masse e i presupposti correnti delle misure di massa; circa la distanza, mi sono altrove occupato dell’influenza determinante del cosiddetto “red-shift” (spostamento verso il rosso delle righe spettrali) sui valori dell’intensità gravitazionale (19). Infatti l’aumento delle lunghezze d’onda in rapporto alla distanza è provocato da una periodica concentrazione delle onde del campo: il periodo viene appunto determinato dalla distanza per un meccanismo relativo alla struttura della propagazione gravitazionale, nel quale è la spiegazione dei fenomeni di pulsazione (“pulsar”) e di variabilità periodica delle stelle e la causa dell’enorme irraggiamento, altrimenti inspiegabile, di galassie lontanissime (“quasar”).

Circa i due fattori assenti nella formula di Newton, s’è detto della densità, nel suo duplice effetto attivo e passivo, e su di essa ritornerò più avanti. L’altro è rappresentato dal “magnetismo”: anche su questo argomento sono necessari richiami a miei studi precedenti (20), dei quali riassumo qui le conclusioni più generali, aggiungendo tuttavia alcune significative implicazioni.

Il magnetismo consiste essenzialmente nei diversi modi e gradi di “polarizzazione” ondulatoria della materia e nel conseguente processo di coorientamento dei campi. La disposizione secondo cui la materia tendenzialmente si aggrega lungo le linee reciproche delle molteplici propagazioni gravitazionali definisce i gradi della scala magnetica naturale (21). Il progressivo addensamento gravitazionale, setacciando le posizioni ottimali in rapporto alla struttura del campo, porta la materia a coordinare gradualmente gli assi delle singole propagazioni, organizzandoli via via intorno a un asse principale di polarizzazione, che è quello di un campo complesso (“dominio”) risultante dalla composizione di moltissimi campi particolari. A loro volta i diversi domini tendono a correlare i rispettivi assi in varie disposizioni, le meno lontane possibili da due ottimali – una polare equiversa ed una equatoriale antiparallela -, al di fuori delle quali si verificano condizioni di squilibrio con esasperazioni cicliche (tempeste magnetiche, macchie e protuberanze solari, terremoti ed eruzioni, ere calde interglaciali, ecc.). Così la disposizione polare controversa è causa degli eventi subatomici di fuga gravitazionale, per i quali i poli omologhi di due calamite rimbalzano l’uno rispetto all’altro (fenomenicamente “si respingono”). Ancora, la disposizione equatoriale parallela, come quella della maggior parte dei pianeti rispetto all’astro centrale (dovuta alla comune appartenenza ad un’unica massa originaria rotante nello stesso senso), provoca nei reciproci moti di rotazione un continuo rallentamento, che porta infine i corpi orbitanti a rivolgersi costantemente la stessa faccia e in seguito a invertire la più lenta delle due rispettive rotazioni, passando all’antiparallelismo equatoriale (22). Questo infatti caratterizza la condizione di maggiore armonia gravitazionale, come negli organismi biologici a simmetria speculare (molluschi bivalvi, emisferi cerebrali, ecc.) (23). Il parallelismo equatoriale, invece, è responsabile dei fenomeni di controcorrente (correnti parassite, o di Foucault), cui si riferiscono la “legge di Lenz” e la cosiddetta “autoinduzione”: nuova conferma del carattere universale della fisica unigravitazionale.

La predominanza d’un asse di propagazione determina dunque un’accentuata dipolarità delle masse (calamita; polarità di rotazione e magnetica degli astri – rispetto a due assi principali: mega- e meso-magnetico -; spin delle particelle; equatorialità dei sisterni galattici e planetari; anelli e fasce equatoriali – Saturno, Van Allen, fasce galattiche -; “polarizzazione” della luce; luce zodiacale; ecc.). E poiché le linee della propagazione gravitazionale si addensano lungo l’asse (24), è questo il luogo delle maggiori velocità gravitazionali sia nel verso centripeto (moti di collisione), sia in quello centrifugo come esito di una traiettoria di mancata collisione (apparente “repulsione”): è ciò che si riscontra nell’interazione tra i poli di due calamite (25).

Il processo di orientamento magnetico della materia coincide con la progressiva riduzione delle velocità atomico-molecolari. Le zone polari, dove la materia precipita più rapidamente che nelle fasce equatoriali (qui le linee gravitazionali si diradano e presentano inoltre una minore intensità puntuale), raggiungono anche, rispetto alle zone equatoriali, più rapidamente un assetto magnetico ordinato, nel quale le velocità atomiche sono nel complesso inferiori. Pertanto esse, a prescindere da fattori concomitanti (come, nel caso della Terra, l’inclinazione dell’asse di rotazione sul piano dell’orbita), sono zone più “fredde”. Ciò è stato, per esempio, verificato nelle calotte circostanti i poli solari, senza alcuna spiegazione da parte della fisica ufficiale (26).

Ciò che s’è detto circa le linee gravitazionali all’equatore, spiega l’espansione equatoriale dei corpi e dei sistemi celesti. Decrescendo l’attrazione centripeta dai poli verso l’equatore, cresce in relazione quella dei campi gravitazionali esterni: per conseguenza, l’equilibrio tra questi e il corpo centrale si stabilisce a distanze radiali progressivamente maggiori; di qui l’espansione. È dunque il rapporto tra le reciproche intensità gravitazionali dei campi a determinare il raggio delle posizioni di equilibrio e le relative velocità di rotazione, e non sono già queste velocità a far nascere dal nulla una fantomatica “forza centrifuga” (27).

È curioso il fatto che un campo gravitazionale possa essere comunemente distinto da un campo magnetico perché, tra l’altro, il primo sarebbe unipolare! (28) In realtà, una massa non palesemente magnetica è tale solo perché presenta una stragrande molteplicità di assi, tutti poco sensibili, la cui dispersione è appunto causa della scarsa interattività della massa. L’orientamento magnetico della materia fa quindi compiere alla gravitazione il secondo salto di intensità, dopo quello prodotto dalla densità, dai deboli valori proporzionali delle masse macrocosmiche a quelli elevatissimi delle cosiddette “cariche” elettriche e dell’ “energia nucleare”.

Se restringessimo al centro della Terra tutta la massa terrestre in una sferetta piccolissima, densa quanto la materia nucleare, il campo gravitazionale terrestre diventerebbe enormemente più intenso a parità di ogni altra condizione: alla stessa distanza del raggio attuale della Terra la mela sarebbe piombata in testa a Newton con un peso di gran lunga maggiore di quello che gli era familiare e che la sua formula e i suoi calcoli sbagliati pretenderebbero indipendente dalla densità delle masse (cfr. n. 17). Di fronte a tale ipotetica evenienza, Newton avrebbe inventato, per questo fenomeno non conforme alla sua aspettativa, una nuova forza di intensità debitamente moltiplicata rispetto alla gravitazione nota. Un’ulteriore enorme moltiplicazione e relativa invenzione di “forze” egli sarebbe poi costretto a compiere, se la sferetta contenente l’intera massa della Terra coordinasse in maniera ottimale gli assi di tutte le propagazioni particolari in un compatto “dominio” a fortissima dipolarità, intensificando straordinariamente il proprio campo magnetico, e così potenziata interagisse con sferette analoghe.

All’origine di pseudoconcetti come “cariche” elettriche, “forze nucleari” e simili, oltre ai due errori relativi a densità e magnetismo, c’è poi la falsa lettura dei fenomeni “repulsivi”, che sembrano tali – e quindi estranei all’interazione gravitazionale, sempre attrattiva – solo perché visti da una prospettiva mentale deformante: ciò che appare “respinto” da qualcosa, è in realtà, come abbiamo visto, “attratto” da qualcos’altro in diversa direzione.

La validità di questa constatazione si estende fin nell’ambito dei fenomeni psichici, le cui modalità rientrano perfettamente nell’analisi unigravitazionale dell’universo: l’ “odio”, cioè, non è veramente “repulsione” per qualcuno o qualcosa, ma è prevalenza, nell’inconscio, di “amore” per sé (per il proprio organismo, per la propria sfera fisio-psichica: autodifesa, istinto di conservazione) o per oggetti esterni diversi da quello da cui ci sentiamo “respinti” (29). Non è dunque nulla di diverso dalla “barriera” periferica che impedisce o ostacola la compenetrazione tra due corpi, provocando il “rimbalzo” del corpo urtato verso direzioni interne o esterne divergenti da quella che va verso il corpo collidente. Ciò significa, sul piano filosofico, che l’odio non ha un valore assoluto, riducendosi sempre a un eccesso di amore: quest’ultimo è l’unica funzione assoluta nell’area psichica, così come l’attrazione gravitazionale nell’area fisica. Aggiungiamo, per corollario, che l’autoconservazione dei sistemi gravitazionali, che si manifesta come resistenza alla compenetrazione violenta con altri sistemi di massa analoga (si ricordi l’analisi fatta del comportamento di elettroni, stelle, ecc.), è un momento necessario per consentire la “composizione” gravitazionale ondulatoria con altri corpi e costruire con essi strutture armoniche più ampie e complesse. Il che vuol dire che autoconservarsi non è il fine degli esseri viventi, bensì è mezzo per amare: si inverte scientificamente il rapporto posto da Hobbes tra uomo e umanità, il primo come “lupo” per ogni altro uomo, la seconda come società regolata dall’ “equilibrio degli egoismi”: un rapporto che sembrava convalidato da una distorta interpretazione dell’evoluzione biologica. Al suo posto viene riconosciuto come legge certa di natura il precetto di Cristo: “Amerai il prossimo tuo come te stesso “.

A un corpuscolo che presenta il carattere di scarsa interattività con le particelle esterne si attribuisce comunemente la qualifica di “neutro”. Ciò è dovuto in realtà o a una condizione di disordine magnetico (corpuscoli espansi e “caldi”: per es., il neutrone, in confronto al compatto, altamente magnetico e “freddo” protone), o a una differente collocazione della “barriera di potenziale” delle particelle costituenti il corpuscolo (come nel sistema protone-elettrone: si ha di norma equilibrio tra effetti attrattivi di una particella ed effetti “repulsivi” dell’altra), o a un regolare antiparallelismo magnetico di eguali particelle componenti (nuclei a strati saturi, con protoni in coppie antiparallele, come nei gas “inerti”: si ha equilibrio tra effetti attrattivi di un polo ed effetti “repulsivi” dell’altro) (30). Quanto al valore presunto unitario della “carica” sia positiva sia negativa, esso è preordinato dal calibro dei nostri strumenti, la cui sensibilità è al limite di una certa intensità gravitazionale: questa appare identica, perché avvertita a distanze differenti dal centro di campo del protone o dell’elettrone che gli fa da schermo. In altri termini, la percezione strumentale arriva fino alla “barriera di potenziale” del protone e a quella dell’elettrone, le quali hanno la stessa intensità, perché la prima è molto più distante dal protone di quanto la seconda non sia dall’elettrone (31).

Torniamo ora al problema delle misure di massa, che vengono eseguite in base agli effetti gravitazionali delle masse stesse. Osserviamo a questo proposito che i fattori della densità (effetto attivo) e del magnetismo hanno nell’interazione gravitazionale un raggio assai ristretto di prevalente influenza, al di là del quale rimane quasi esclusivamente sensibile il fattore nudo della quantità di materia (pur sempre misurato negli effetti invece che in assoluto): proprio per questo la formula di Newton può prescindere senza troppo danno, nella misura della gravitazione macrocosmica, da quei due fattori, il cui carattere gravitazionale è tuttavia chiaramente sottolineato dalla somiglianza delle formule dell’interazione elettrica e magnetica con la legge newtoniana.

Dipende dunque dal metodo e dallo strumento di misura adoperati, se i valori di massa risultano dai calcoli quasi nudi oppure alterati dai coefficienti delle brevissime distanze (“cariche” elettriche e magnetiche, “forze nucleari”, ecc.), che bisogna scomputare per arrivare all’effetto della “quantità di materia” pura e semplice.

Così, se devo misurare la massa d’una sbarra di ferro relativamente alla massa campione d’una seconda sbarra di ferro, posso usare come strumento di misura la stessa sbarra campione, scagliandola con una forza nota contro l’altra e misurando l’accelerazione impressa a questa. In tal caso, tuttavia, i risultati saranno diversissimi a seconda che le due sbarre siano entrambe magnetiche (e che si volgano poli omologhi o contrari), o solo una, o nessuna. Ciò perché il metodo e lo strumento di misura sono sensibili, nell’interazione a brevissima distanza, all’effetto gravitazionale magnetico.

Per il medesimo calcolo potrò anche usare la Terra come strumento di misura, mettendo su una bilancia le due sbarre. Diventeranno allora quasi ininfluenti i caratteri magnetici delle sbarre di fronte al campo gravitazionale terrestre, enorme come valore di massa, ma relativamente debole per valore di dipolarità (magnetismo): la bilancia mi darà in qualsiasi caso il rapporto quasi esatto tra le due masse. Naturalmente, usando questo metodo, terrò conto della pratica proporzionalità della forza alle masse; usando l’altro, della quasi non proporzionalità della forza applicata alle masse.

Spostandoci nel mondo delle particelle, incontreremo situazioni del tutto analoghe. Facendo interagire le particelle tra loro, rileveremo prevalentemente gli effetti gravitazionali percepibili alle più brevi distanze – densità e magnetismo – e tireremo fuori “cariche”, mitologici segni di “più”, “meno” e “anti-“, forze nucleari di legame e di scambio, e così via. Fatta la tara di tutti questi ingredienti, calcoleremo le masse. È il metodo delle due sbarre di ferro. Oppure ci serviremo di campi elettromagnetici, che sono l’equivalente – fatte le proporzioni con le particelle – del campo gravitazionale terrestre usato nel metodo della bilancia. Ed ecco lo “spettrografo di massa”, che ci darà valori di massa più vicini a quelli nudi della quantità di materia, essendo sufficiente per calcolarli avere in partenza nelle particelle una eguale condizione di “carica”.

Ma nella lettura dei risultati subentra un grossolano divario rispetto alla misura di masse macrocosmiche: presumendosi che le forze in gioco nei campi elettrici e magnetici non siano di tipo gravitazionale, esse vengono considerate assolutamente non proporzionali alle masse delle particelle, così come le forze elettromagnetiche si manifestano se applicate a masse macrocosmiche. L’analisi fatta sulla nostra tabella ci ha invece mostrato che, in un campo gravitazionale, passandosi da un certo ordine di grandezza e densità delle masse soggette a un ordine di minori grandezze e più alte densità, si verifica il passaggio graduale dalla quasi non proporzionalità alla quasi proporzionalità del campo applicato alle masse. Interverranno quindi inevitabilmente degli errori che, sulla base del confronto di accelerazioni valutate col rigido criterio di proporzionalità inversa alle masse, ci faranno attribuire alle particelle valori di massa non veri.

Anche senza variazioni di densità, risulta, ad esempio, dalla tabella che, se un oggetto campione di massa 8 subisce dal campo un’accelerazione pari a 12, un altro corpo, cui lo stesso campo gravitazionale imprima un’accelerazione = 24, sarebbe valutato di massa 4, mentre in realtà esso avrebbe m < 4. Viceversa, se l’oggetto di riferimento ha massa 4 e accelerazione 23, un corpo accelerato di 11,5 e valutato quindi di massa 8 avrebbe realmente m > 8. Ma il fenomeno più paradossale si riscontra in rapporto a variazioni di densità della massa soggetta, soprattutto quando tali variazioni comportino il passaggio dall’una all’altra fascia della tabella. Si rileva da questa che un campo totale = 100 provoca su una massa = 32 un’accelerazione = 3,125. Se ora condensiamo tutta la massa nello spazio delle prime due parti unitarie (fig. 1), per le quali il campo medio applicato è 30, il campo totale di mo applicato a m sale a 960, senza che mo sia minimamente cambiata, e l’accelerazione impressa sale a 30. La formula F = m a ci costringe invece a supporre un’invarianza di F e in rapporto ad essa un’accelerazione sempre pari a 3,125. La massa calcolata per un’accelerazione = 30 sarà dunque 32 * 3,125 / 30 = 3,33…, contro un valore effettivo circa 10 volte maggiore, essendo cambiata solo la densità della massa originaria = 32. La conclusione è stupefacente: le masse delle particelle, valutate in base alle accelerazioni loro impresse da campi elettromagnetici di intensità riferita ad effetti macrocosmici, sono inferiori al vero, poiché tali campi, quasi non proporzionali rispetto a masse macrocosmiche, hanno invece un effetto di quasi proporzionalità sulle densissime masse delle particelle subatomiche, che pertanto ne vengono accelerate assai più del previsto. Le masse calcolate conservano in genere una parvenza di validità, essendone approssimativamente rispettati i valori di rapporto, come si è precedentemente osservato; ma al di sopra di certe velocità, arrivando le particelle a una più profonda interazione nei reciproci campi gravitazionali, gli effetti prodotti finiscono necessariamente con l’esorbitare da una plausibile approssimazione: è un altro dei motivi che costringono a congetturare un fantascientifico “aumento relativistico di massa” ed ultimamente a riscontrare un incremento della cosiddetta “sezione d’urto” dei protoni ultraveloci (32), senza che si trovi alcuna logica spiegazione dei fenomeni in questione. Nasce di qui l’enorme confusione che, com’è noto, imperversa nella fisica delle particelle, paralizzata dalla mancanza d’una seria teoria generale delle interazioni macro- e microcosmiche. Siamo ormai arrivati all’ “antiomega meno”: si rende perciò necessario il blocco immediato delle scoperte!

Ritorniamo infine alla gravitazione siderale e alle leggi di Keplero e Newton. Abbiamo ripercorso tutta la strada dell’errore che ha fatto attribuire valore universale a formule grossolanamente approssimative. Il moto orbitale dei pianeti intorno al Sole, per il rapporto esistente tra le masse planetarie e il Sole, (e così quello dei satelliti intorno ai pianeti) si colloca all’incirca lungo la linea orizzontale della nostra tabella, ossia su valori di campo per i quali il campo totale del Sole è ancora approssimativamente proporzionale alle masse dei singoli pianeti e quindi le sue variazioni sembrano dipendere unicamente dai raggi delle orbite. Fu così che Keplero poté credere esatta la sua terza legge R3 / T2 = costante, ipotizzandone il valore universale. A questo punto, non restava a Newton che introdurla nelle formule del suo secondo principio e del moto circolare, per arrivare fatalmente alla cosiddetta legge della gravitazione universale:

F = G (m1 m2) / R2

Questa formula, dotata – com’è ovvio – della stessa validità empirica ed approssimativa della sua matrice kepleriana, si rivestiva surrettiziamente della stessa aureola di universalità, mettendo fuori strada per tre secoli il pensiero scientifico moderno. Senza dire che la formula di Newton, facendo entrare in causa (con un progresso rispetto al 2° principio F = m a) la seconda di due masse interagenti, ignora del tutto l’azione chiaramente determinante di tutte le masse circostanti, le quali vanno a nascondersi nei panni di quella Cenerentola di ignoti genitori, che è la “forza centrifuga”! (cfr. n. 27) (33).

Eppure della legge di Keplero era facilissimo fare la controprova aritmetica, che ne avrebbe subito dimostrato l’assoluta nullità teorica, e anche pratica al di là di un ristretto ambito di rapporti. Mi riservo quella prova del nove come conclusione di questo lavoro, dovendo ora occuparmi della cosiddetta “costante universale di gravitazione” G (per costanti e universali si intendono, nella fisica odierna, delle variabili particolari!), misurata da Cavendish col noto esperimento. Essa era assolutamente necessaria per calcolare le masse planetarie sulla base della formula newtoniana e poteva essere ricavata solo empiricamente da un modello minuscolo dell’interazione siderea. Così Cavendish ideò la sua bilancia gravitazionale a torsione, che rileva la forza che si esercita in laboratorio tra due masse di valore conosciuto.

Ma poiché la massa degli astri, a cominciare da quella della Terra, può essere misurata solo in relazione a quella costante, ne discende che, se l’esperimento fosse teoricamente scorretto, noi ignoreremmo a tutt’oggi le effettive misure delle masse planetarie. Ebbene, la realtà è proprio questa: l’esperimento di Cavendish è inficiato da due errori fondamentali, poco rilevabili su piccola scala, ma che ci portano a misurare, come s’è detto, al posto di una “costante universale” una modesta variabile: il che è già dimostrato dal fatto che, tra le costanti fondamentali, quella gravitazionale è stata calcolata con minor precisione, non superando l’approssimazione – scientificamente irrisoria – di 1 / 500.

Il primo errore consiste nel trascurare completamente la densità delle masse interagenti, che nella formula newtoniana è considerata ininfluente. Nell’esperienza di Cavendish le masse hanno tutte la stessa densità e si prescinde dal peso specifico del materiale costituente: stando alla formula, il risultato non dovrebbe esserne influenzato. Ed invece, compatibilmente con il grado possibile di precisione degli strumenti, si troverebbe che la forza esercitata reciprocamente è maggiore tra masse di materiale più denso, a causa dell’effetto attivo e passivo della densità. Il secondo errore sta nel credere che tale forza, misurata tra le masse di laboratorio, sia proporzionalmente eguale a quella che agisce tra Sole e pianeti. Abbiamo invece visto che la gravitazione planetaria è caratterizzata da un fortissimo squilibrio tra le masse in gioco e che è proprio questo squilibrio che conferisce alla forza dell’astro maggiore carattere di quasi proporzionalità alla massa dell’astro minore. Non realizzandosi in laboratorio una tale condizione di enorme differenza, la forza misurata ha il carattere di quasi non proporzionalità alla massa soggetta e quindi costituisce un modello assolutamente improprio della gravitazione planetaria.

Del resto, anche nel cosmo, la proporzionalità della forza di gravità alle masse soggette è un fatto approssimativamente valido solo per la forza dell’astro maggiore rispetto a quello minore: la terza legge di Keplero e quella conseguente di Newton mostrano la loro inconsistenza, se tentiamo di verificarle all’inverso, applicandole cioè alla forza dell’astro minore rispetto a quello maggiore. Dimostreremo ora numericamente ciò che già sappiamo dall’analisi teorica, ossia che il campo del corpo minore diminuisce rapidamente a partire dalle zone più vicine del corpo maggiore e quindi diventa in totale quasi non proporzionale alla massa del corpo più grande, cui conferisce un’accelerazione quasi inversamente proporzionale alla massa del corpo stesso.

Prenderemo dunque in esame l’inverso della rivoluzione dei pianeti intorno al Sole, e cioè precisamente la rivoluzione del Sole rispetto alla Terra e agli altri pianeti. La differenza da Tolomeo sta nel termine “rispetto a”, ma dobbiamo prendere subito le distanze – e nettissime – anche dalla visione attuale, completamente infondata, del fenomeno. Del resto, nella realtà geometrica dei moti spaziali anche i pianeti orbitano, propriamente parlando, “rispetto al Sole” e non “intorno al Sole”.

Procediamo con ordine. La logica e la stessa legge newtoniana ci dicono senza equivoci che gli effetti della gravitazione tra due o più corpi sono reciproci e si differenziano solo per le dimensioni spaziali e temporali dei moti provocati: in ciò concorda anche la generica idea einsteiniana della “curvatura dello spazio”. Ora, se il campo gravitazionale solare è tale da provocare la rivoluzione della Terra intorno al Sole, dobbiamo ricercare la misura e le modalità precise del fenomeno vicendevole che la gravitazione terrestre produce sulla massa del Sole.

Vediamo prima ciò che ne pensa la corrente cosmologia. Alla voce “Luna” della EST (Enciclopedia della Scienza e della Tecnica, Mondadori, V edizione) leggiamo:

“La Terra e la Luna compiono attualmente una rivoluzione attorno al loro baricentro, o centro di massa comune (un punto situato a circa 4670 km dal centro della Terra) in 27d 7h 43m 1l,6s “.

Alla voce “Meccanica celeste “:

“Entrambi i corpi [Sole e pianeta] descrivono, intorno al comune centro di gravità, due orbite aventi esattamente la stessa forma e le dimensioni di ciascuna orbita sono inversamente proporzionali alla massa del corpo”.

Più oltre:

“Il solo moto direttamente osservabile è quello del pianeta intorno al Sole”.

Da quanto sopra si evince che la fisica corrente considera i due moti intorno al comune baricentro come sincroni, l’uno in opposizione all’altro, identici a quelli di due palle diseguali che ruotino su se stesse alle due estremità di un manubrio a lunghezza variabile (per l’ellitticità delle orbite) e in rotazione attorno al proprio baricentro (fig. 2).

Fig.2

In primo luogo osserviamo, come d’altronde si rileva dalla EST, che il moto dell’astro maggiore, per la ristrettezza della sua orbita, sulla quale è costantemente in opposizione al corpo minore, non è astronomicamente verificabile: è dunque, nei termini indicati, un moto ipotetico per quanto riguarda la prova naturale. In realtà io sostengo che il sincronismo delle due orbite è inesistente – salvo nel caso limite che le due masse siano identiche – e che la reciprocità del moto va intesa altrimenti.

Il mio ragionamento, infatti, segue quello comune solo fino a un certo punto. La non coincidenza del baricentro del sistema col centro di massa di uno dei due corpi e le variazioni della velocità (per fattori sia locali sia generali) determinano l’ellitticità delle orbite (fig. 2). Come la Terra da T1 intraprende un moto tendente a orbitare intorno al Sole, questo reciprocamente muove da S1 su un percorso tendenzialmente rivolto a circumnavigare la Terra. Essendo però troppo debole la forza gravitazionale terrestre in rapporto alla massa solare, il Sole non può abbracciare l’orbita terrestre nella propria e si limita a circoscrivere il baricentro del sistema. Ma qui interviene la differenza sostanziale con la comune lettura del fenomeno:

a). Il baricentro di due corpi in orbitazione, rispetto al quale si deve considerare la rivoluzione reciproca, non è quello statico di un manubrio, tale cioè da vincolare rigidamente gli elementi del sistema a un moto perfettamente solidale: è bensì un baricentro dinamico, nel significato che definirò appresso. La staticità del baricentro interviene solo su una scala di fenomeni in cui le varie parti di un sistema sono concatenate in un ordito complessivo di mutua fissità: ad esempio, un oggetto di ferro in moto qualsiasi ha un baricentro statico determinato dalla reciproca immobilità delle sue parti macroscopiche; ma due atomi dello stesso oggetto in continuo movimento relativo hanno tra loro solo un baricentro dinamico.

b). Mentre il baricentro statico preso a riferimento dalla fisica newtoniana si trova costantemente sulla congiungente i due centri di massa, il baricentro dinamico è situato costantemente sull’asse maggiore dell’orbita (linea apsidale) dalla parte dell’apoastro (afelio, apogeo, ecc.): si riferisce cioè al momento in cui i due corpi, pervenuti alla massima distanza relativa, tornano a subire una prevalente attrazione reciproca e si precipitano lungo la china dei vicendevoli campi gravitazionali. La distanza del baricentro dai due centri di campo è in proporzione inversa all’intensità dei due campi.

c). Rispetto al baricentro dinamico così definito, la rivoluzione del Sole, lungi dall’essere sincrona con quella della Terra, è invece estremamente più lenta ed ha come naturale effetto e ad un tempo prova evidente di tale lentezza la rotazione della linea degli apsidi: è questo il famoso “spostamento del perielio”, per la cui spiegazione inutilmente si è scomodata la relatività (fig 3).

Fig.3

A misura che il Sole, debolmente sollecitato dal campo terrestre, ruota intorno al baricentro del sistema, fa anche ruotare in naturale sincronia con tale moto la linea degli apsidi. Lo stesso accade, ovviamente, per tutti i moti planetari e segna il periodo vero della rivoluzione inversa dell’astro maggiore rispetto a quello minore. Tra due masse equivalenti (come stelle binarie di egual massa e identico campo, i due protoni dell’atomo di elio, ecc.) l’orbitazione reciproca è sincrona e il vero periodo di rivoluzione non è segnato dal compimento di un giro da parte di ciascun corpo (34), ma dalla intera rotazione della linea apsidale (che è poi la reale rivoluzione reciproca di due corpi: orbitazione a rosetta) (fig. 4).

Fig.4

Precisiamo peraltro che la misura effettiva della rivoluzione apsidale non va ricondotta alla sola azione così determinata del corpo minore su quello maggiore, comprendendo in sé sollecitazioni anche di altra provenienza, della cui entità essa va depurata nel nostro ragionamento. Qui dunque ci si riferisce alla parte addizionale della rotazione degli apsidi, al di là del valore di cui la meccanica classica riesce bene o male a render conto: ad esempio, lo spostamento del perielio di Mercurio è di 574″ di arco per secolo, di cui solo 42″ costituiscono la rotazione addizionale (35).

Stabilito così il significato esatto della rivoluzione del Sole in rapporto alla Terra, non resta che applicare finalmente all’inverso la terza legge di Keplero, a mo’ dì verifica di essa e di tutto il discorso fatto finora. Il risultato è stupefacente e si racchiude in un calcolo facilissimo. Spostiamo il punto di riferimento dal Sole alla Terra, considerando rispetto a questa la rivoluzione della Luna e quella ora analizzata dello stesso Sole.

Ecco la tabella che ne deriva, in funzione dei valori R e T dell’orbita lunare presi come unità:

……………….Luna………………………………..Sole

R………………. 1………………….149.500.000 / 384.000 = 389

T………………..1….………………………..……….x

R3……………….1….…………………….3893 = 58.863.869

T2……………….1…………………………x2 = 58.863.869

Da cui x = 7672 rivoluzioni lunari, ovvero 590 anni circa.

Se dunque Keplero e Newton avessero ragione, se cioè la forza di attrazione terrestre fosse proporzionale alle masse della Luna e del Sole, essa produrrebbe una rivoluzione solare di 590 anni. Ma la verifica di questo valore è ormai facile: basterà infatti paragonarlo a quello addizionale della rivoluzione apsidale terrestre, ossia di una rotazione completa addizionale del perielio della Terra. Ebbene questo periodo è stato calcolato ed è di 34 milioni di anni! (36) Volendo fare le debite riserve sui calcoli della meccanica classica, poiché la rotazione apsidale effettiva si compie nel periodo di circa 112.000 anni (11,6″ di arco per anno), questo valore è il minimo riferibile alla sola rivoluzione solare, se per assurdo non ci fossero le altre sollecitazioni concorrenti: esso, tuttavia, risulterebbe ancora di gran lunga superiore ai 590 anni previsti dalla terza legge di Keplero (che per suo conto già smentisce l’irrisorio periodo di un anno della presunta rivoluzione sincronica del Sole, legato a manubrio con la Terra!).

Si è avuta così la più evidente conferma matematica dell’assunto di questa indagine: che cioè la gravità è solo apparentemente proporzionale alle masse dei gravi nel verso della forza che un corpo molto grande esercita su uno molto piccolo, ma non è più tale nemmeno approssimativamente nell’effetto prodotto dal corpo minore su quello maggiore, tendendo lungo i rapporti mediani verso la “non proporzionalità ” – anch’essa soltanto come limite – di tutte le altre forze. Il periodo della rivoluzione apsidale è infatti enormemente superiore a quello che si avrebbe in caso di effettiva proporzionalità dell’attrazione terrestre alle masse degli altri corpi celesti.

Resta confermato che il risultato empirico dell’esperimento di Cavendish e simili rivolti a calcolare la cosiddetta “costante di gravitazione universale” non è assolutamente estensibile come unità di misura a tutti i fenomeni gravitazionali dell’universo. Naturalmente i valori attribuiti alle masse e alle densità dei corpi celesti sono tutti in assoluto erronei, perché calcolati esclusivamente in funzione di quella falsa costante, senza altra verifica.

Ma la conseguenza più grave dell’errore di Keplero e Newton è rappresentata dalla barriera in apparenza invalicabile che esso inserisce tra la gravitazione e le altre forze cosmiche: una barriera che ha finora frustrato la profonda esigenza del pensiero umano di realizzare nella scienza l’unità organica di tutte le leggi dell’universo.

 

(15) “(Per Mach) misurabile … è non la massa in assoluto, ma il rapporto tra le masse, definito solo in funzione dell’azione reciproca esercitata tra le masse stesse” (A. Trebeschi: “Sapere” n 757, pag. 10).

16) W. R. Fuchs, op. cit., pag. 273.

(17) R. P., Introduzione alla fisica unigravitazionale, pagg. 20-24; Fisica del campo unigravitazionale, vol. 2°, pagg. 48-50.

(18) “Tempo nuovo” n. 2/1973, pag. 49, nota 11.

(19) R. P., La fisica unigravitazionale, §§ 28-29; “Tempo nuovo ” n. 3/1972, pagg. 53 sgg.

(20) R. P., Fisica del campo unigravitazionale, §§ 13-15, 38-48; Magnetismo e terremoti. La previsione dei sismi (“Tempo nuovo” nn. 1-2/1972); Magnetismo e calore (“Tempo nuovo” nn .5-6/1972 e 2/1973).

(21) “Tempo nuovo” nn. 1-2/1972, pag. 43.

(22) Com’è noto, anche la durata del giorno terrestre cresce lentamente a causa dell’interazione Luna-Terra.

(23) “Tempo nuovo” nn. 1-2/1972, pagg. 36-57.

(24) “Tempo nuovo” nn. 1-2/1972, pagg. 34-35, figg. 1-3.

(25) “Tempo nuovo” nn. 1-2/1972, pagg. 35-36.

(26) “Scienza e Tecnica/73”, Mondadori, pag. 17.

(27) R. P., La fisica unigravitazionale, pag. 64.

(28) O. M. Phillips, La geofisica, Mondadori, pag. 168.

(29) R. P., La fisica unigravitazionale, pag. 84.

(30) I termini usuali di paramagnetismo e diamagnetismo si riferiscono esclusivamente agli effetti della dipolarità. Nella “scala magnetica naturale” di cui alla nota 21, essi indicano invece la diversa complessità strutturale (crescente dal primo al secondo) ed estensione dei domini (rispettivamente decrescente); sicché sostanze a bassa densità nucleare sono, per quella scala, paramagnetiche, e ad alta densità diamagnetiche. La dipolarità dipende soprattutto dalla distribuzione dei protoni nello strato nucleare più esterno e perciò i fenomeni relativi sono alternamente ricorrenti lungo la scala delle densità. Di conseguenza, il valore dei due termini non coincide nell’uso corrente e nel nostro.

(31) R. P., Introduzione alla fisica unigravitazionale, pagg. 19-20; Fisica del campo unigravitazionale, § 60.

(32) “Sapere” n. 764, pagg. 31 sgg.

(33) A questo punto è bene chiarire un concetto estremamente ambiguo nella fisica comune: quello di “assenza di peso”, su cui corrono opinioni prive di senso (W. R. Fuchs, op. cit., pagg. 232-234; Caianiello, De Luca e Ricciardi, op. cit., vol. 1°, pagg. 116-117). Si confonde infatti l’assenza di peso con la sensazione d’un’assenza di peso. La prima si verifica nell’orbitazione o nel punto a velocità zero tra salita e ricaduta di un corpo e si deve all’azione simultanea di un’accelerazione centripeta e di un’eguale accelerazione centrifuga (R. P., La fisica unigravitazionale, pag. 65). La seconda si prova, benché il peso non sia nullo, all’interno di una cabina pressurizzata in caduta libera e deriva dall’assenza d’una interazione di contatto o di urto con le pareti della cabina, la cui velocità è eguale in valore assoluto e nel verso a quella dei corpi interni: nel contatto e nell’urto (R. P., Fisica del campo unigravitazionale, §§ 61-69) le velocità atomiche periferiche hanno verso opposto, determinando eventi più o meno accentuati di compenetrazione o di rimbalzo e quindi la sensazione di peso. Questa nasce in sostanza dallo squilibrio – in verso e valore assoluto – tra le accelerazioni subite dalle varie parti del corpo, che attirate tutte in direzione del centro d’un astro ne vengono contemporaneamente respinte da interazioni atomico-molecolari di fuga rispetto alla superficie di contatto.

(34) “Tempo nuovo” nn. 5-6/1972, pagg. 64-65.

(35) V. ” Relatività ” nell’Enciclopedia Italiana e nella EST. In quest’ultima si legge: “A causa delle lievi perturbazioni causate da un pianeta sull’altro, tutte le orbite planetarie ruotano molto lievemente, cosicché la posizione dei loro afeli cambia nel tempo. Nel caso di Mercurio, la relatività generale predice una rotazione addizionale degli afeli di circa 43″ di arco per secolo, quantità che, a dispetto della sua piccolezza, è stata verificata con accuratezza soddisfacente”. Ma il calcolo non quadra affatto per il pianeta Marte (8,03″ contro una previsione di l,35″ ). Cfr. R. P., Fisica del campo unigravitazionale, § 26-(5).

(36) Lo spostamento addizionale del perielio è di 3,8″ di arco per secolo: v. J. A. Coleman, La relatività è facile, ed. Feltrinelli, pag. 109.

Chiudiamo questa sezione con un richiamo agli altri precedenti relativi alla fisica unigravitazionale, citati nella Bibliografia dell’autore.

Essi rappresentano – per così dire – l’ “archeologia” della nuova fisica, ma sono tuttavia ancora, pur nelle necessarie rettifiche apportate successivamente al magmatico pensiero originario, un complemento imprescindibile della presente opera.

Non è peraltro possibile porre rimedio alla difficoltà reale di un loro odierno reperimento e rilettura, a decenni di distanza dalle prime pubblicazioni effettuate.

Nell’economia di questo attuale lavoro non trovava posto, per esempio, la descrizione della struttura unigravitazionale dell’atomo – dall’idrogeno agli elementi più complessi del sistema periodico – , che si legge in Fisica del campo unigravitazionale (§§ 56-57), edita nel 1969.

In effetti, lo studio puntuale della particella elementare oggetto della sezione 6, nell’intero contesto delle leggi di strutturazione universale che muovono da essa, esime dalla necessità di esaurire tutti i passaggi formativi intermedi, che non possono non ripresentare, in modo più o meno palese e scindibile, all’interno di particelle e corpuscoli la morfologia generale di ogni struttura macroscopica.

 

Tra la premessa al primo articolo di questa sezione 4 (ottobre 1997) e la presente chiusura (gennaio 2005) sono trascorsi più di sette anni. Quello scritto si riferiva ai terremoti avvenuti in Italia, allora recenti, e introduceva un articolo pubblicato nel 1972 sul magnetismo e la previsione dei sismi. Oggi dovrebbe ripetersi identico, ma con toni assai più drammatici, dopo lo tsunami del 26 dicembre 2004 che ha devastato le coste di un continente. Sono morte oltre duecentomila persone e si è salvata tutta la fauna selvatica. Un effetto collaterale dell’insipienza della scienza contemporanea (che farebbe bene a studiarsi l’effetto Barkhausen, naturale per gli animali, invece di baloccarsi con la favola dei buchi neri, e consimili).

 

 

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