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Cap.1.1-1.3 Perché la fisica odierna non ci convince…

Sezione 1. Introduzione alla Fisica Unigravitazionale.

Cap.1.1 Un fantasma che ha quattro secoli.

Si potrebbe semplificare dicendo che la fisica odierna non ci convince, solo perché non esiste una fisica odierna”.

C’è bensì una fisica che risale a quattro secoli fa e che è stata mummificata dai suoi eredi e difensori attuali. Questi hanno fatto delle sue reliquie oggetto di culto, al punto che tutto quello che appare oggi essere rivoluzionario rispetto al passato (relatività, ecc.) viene religiosamente ricollegato ai principi stabiliti da alcuni numi tutelari: in particolare, Galileo e Newton. Fatto sta che, come vedremo tra poco, una serie di fenomeni e di osservazioni appartenenti alla ricerca e all’esperienza dei nostri giorni hanno completamente demolito quei principi, i quali vengono puntellati ostinatamente con storpiature teoriche dai sostenitori dell’immobilismo contemporaneo, rivelatosi assai peggiore dell’aristotelismo medievale.

Naturalmente nessuno dubita dell’importanza di quei grandissimi innovatori del corso del pensiero umano come Galileo e Newton, importanza riferita storicamente ai loro tempi e ai risultati certo straordinari derivati da un nuovo modo di intendere la scienza. Ciò è consistito nell’unire la misurazione matematica all’esperienza, rinunciando ai perché (Newton: Hypotheses non fingo, non formulo presupposti). La conseguenza è stata lo sviluppo prodigioso della tecnica, quale tutti oggi lo conosciamo, alimentato dallo strumento insostituibile del metodo matematico.

Paradossalmente, tuttavia, quel metodo sbarrava la strada ad ogni possibilità di conseguire una reale conoscenza del mondo fisico. Dovrebbe bastare un solo esempio a tale riguardo. La famosissima formula newtoniana F = ma (forza eguale a massa per accelerazione), fondamento delle leggi della dinamica, non spiegherà mai a nessuno quale è la natura di una forza qualsiasi: nessuno oggi sa dire che cosa veramente significhi tale concetto, oltre che misurarlo e usarlo empiricamente ed averne un’idea ancora esclusivamente “muscolare“, perché la moltiplicazione di due quantità per ottenerne una terza eterogenea non ha alcun senso conoscitivo. Lo stesso vale per tutte le altre formule della fisica postnewtoniana. (Eddington osservò, per esempio, che noi parliamo di “qualche cosa che chiamiamo energia senza sapere minimamente che cosa essa sia“). Ma proprio questo assurdo limite alle capacità intellettive dell’homo sapiens viene imposto come divieto metodologico dalla cosiddetta “scienza” contemporanea.

Ebbene, occorre oggi riconoscere, ed anche con urgenza, che un tal modo di concepire la scienza, benché fertile fino ai nostri giorni, ha completamente esaurito la sua ragion d’essere. Ci sono dei limiti ormai per esso invalicabili, anche sul piano dei risultati strettamente tecnici, in certe direzioni e campi della conoscenza (biologia, medicina, astrofisica, ecc.), per superare i quali è necessario sostituire l’attuale paradigma dottrinario con uno del tutto nuovo, destinato ad inaugurare il terzo millennio.

Il sistema contemporaneo di teorie si regge sulla esaltazione del progresso tecnico e sulla mitizzazione di idoli mantenuti in piedi a tutti i costi, quantunque abbiano da tempo perduto i loro piedistalli. Il crollo sopra accennato dei principi teorici tradizionali viene, infatti, passato sotto silenzio o ritardato con rabberciamenti o semplicemente ignorato per difetto di informazione.

Così, la legge galileiana dei gravi (eguale accelerazione per masse diverse) è stata smentita nel 1986 dalla revisione degli esperimenti di Eötvös (un’analisi accurata dimostra che masse minori subiscono dalla gravità accelerazioni maggiori): il che significa che è radicalmente infondata la relatività di Einstein, basata su quel presunto “principio” (equivalenza tra massa gravitazionale e massa inerziale). Per evitare il disastro, si inventò una “supercarica“, o “quinta forza“, in funzione antigravitazionale: una sorta di “forza di levitazione” degna dei santi più miracolosi. Su quel prodigio è poi calato il silenzio.

La “fusione fredda” (fusione nucleare a bassa temperatura), ostinatamente avversata dagli ambienti accademici, ha fatto cadere nel 1989 i fondamenti dell’elettromagnetismo ufficiale, per il quale si dilapidano somme enormi in spese inutili (salvo che per l’establishment), come quelle per la costruzione di faraonici acceleratori di particelle.

Abbiamo appreso dal n.308 del dotto mensile LE SCIENZE (aprile 1994: La metafisica delle particelle, di John Horgan) che il Congresso americano ha bloccato (per fortuna) a un quinto dei lavori la costruzione nel Texas di un Supercollisore avente un circuito di 86 chilometri e del costo di 11 miliardi di dollari (circa 19000 miliardi di lire). Comprensibile il rammarico dell’articolista, il quale ci informa che, per unificare la gravitazione con le altre forze cosmiche, occorrerebbe un acceleratore “della circonferenza di mille anni luce”: cioè di appena nove milioni e mezzo di miliardi di chilometri! Ci spieghiamo, così, perfettamente il titolo metafisico dell’articolo.

Se dal macrocosmo volgiamo lo sguardo al microcosmo, ci fulmina la sentenza di Heisenberg: “L’atomo della fisica moderna può essere rappresentato solo per mezzo di una equazione differenziale in uno spazio pluridimensionale. Ogni immagine, con la quale potremmo tentare di rappresentarci l’atomo, è eo ipso errata.”

In conclusione, la “fisica odierna” si è suicidata – come avevamo anticipato – tra due inconoscibili: la gravitazione e l’atomo. Ne rimane un puro fantasma: auguriamoci che si decida a scomparire con la fine di questo secolo disgraziato.

Cap.1.2 Le teorie moderne: il “gioco delle tre carte”.

Il meccanismo genetico delle teorie fisiche moderne è scaturito dall’empirismo e da una rinuncia metodologica alla conoscenza, come si è detto nel capitolo precedente. Sarà particolarmente interessante esaminarne alcuni aspetti peculiari, che sfuggono alla condizione “ipnotica” in cui versa l’opinione corrente sul reale stato della fisica teorica contemporanea.  Il modo istituzionale di nascere e di sostenersi delle teorie moderne è il seguente:

Nel momento in cui si scopre la ricorrenza di un fenomeno, date certe condizioni, e la riducibilità di tale ricorrenza in una formula matematica, si può prescindere, anzi,  newtonianamente si deve prescindere da ogni presupposto di cause, per misurare e quantificare il fenomeno e possibilmente ripeterlo (non sempre, infatti, ciò è possibile, come negli eventi astronomici). In mancanza di una individuazione di causa (Newton: hypotheses non fingo, cap. prec.), il fenomeno diventa un “principio” e, come tale, fondamento di una teoria, e successivamente generatore di una catena di altri “princìpi” e di altre teorie, all’infinito.

Autoconvalidatosi in questo modo il proprio certificato di nascita, le teorie moderne vogliono però assicurarsi l’immortalità. Se infatti, per qualche disgraziata ragione, viene a cadere il “principio”, la logica vorrebbe che cadesse nel medesimo momento tutta la conseguente catena di “princìpi” e di teorie in cordata con esso. Per evitare tale deprecabile iattura, ci sono tre contromisure possibili:

a) inventare un “rattoppo”, magari con un nuovo “principio” ad hoc e una nuova teoria;

b) contestare disperatamente ciò che smentisce il “principio”;

c) cercare di far dimenticare i fatti che hanno provocato la crisi.

Iniziatori involontari di questo metodo – fin oggi fortunato, ma agli antipodi di qualsiasi valenza conoscitiva – furono Galileo e Keplero.

Il primo, buttando giù pietre (secondo la tradizione) dalla torre di Pisa, trovò che tutte le masse subiscono dalla gravità la stessa accelerazione, quale che sia la loro grandezza. Se di tale fenomeno avesse scoperto la causa, non ci sarebbe stato bisogno di sperimentarlo ostinatamente così come è avvenuto da quei tempi fino ad oggi, attraverso Newton (“tubo di Newton”), arrivando a Eötvös (1922) e al controllo recente (1986) degli esperimenti di quest’ultimo. Non essendone conosciuta la causa, ecco che se ne è fatto un “principio”: è quello detto di “equivalenza tra massa gravitazionale e massa inerziale”. Einstein lo ha posto alla base della sua teoria della relatività (ascensore di Einstein).

Keplero, studiando il moto dei pianeti, formulò le sue famose tre leggi geometriche sulle orbite planetarie: leggi che hanno un carattere prettamente empirico e, mancando anch’esse di ogni spiegazione naturale, sono state assunte a “princìpi” irrevocabili.

Conseguenzialmente alle osservazioni – ribadiamolo – soltanto empiriche di Galileo e Keplero e ai loro “princìpi”, Newton ha formulato la sua legge della “gravitazione universale”: una teoria, dunque, che ha alla sua base non una conoscenza di cause fisiche ma delle risultanze osservative divenute “princìpi” o “postulati”.

Ebbene, nel 1986, la revisione degli esperimenti di Eötvös ha dimostrato falso il principio di equivalenza, cosa che il titolare di queste pagine web aveva sostenuto già nel 1973: si legga tutta la questione nel cap.2.6. Le osservazioni empiriche che erano alla base di quel “principio” hanno validità approssimativa in una certa fascia di fenomeni, che è quella che coinvolge gravi di massa relativamente non grande rispetto a un campo gravitazionale enormemente prevalente, come quello del Sole per i pianeti o quello della Terra per le pietre di Galileo.

Inutile dire che, caduto il principio, la fisica ufficiale si è guardata bene dal dichiarare estinte le teorie che vanno da Galileo – attraverso Newton – fino ad Einstein. Ha invece messo in atto le tre tecniche di salvataggio sopra ricordate, per le quali rimandiamo alla nostra analisi nel cap.2.3.

Paradossalmente è proprio questa metodologia illusoria – cui abbiamo attribuito nel titolo la qualifica di “gioco delle tre carte” – che viene designata oggi come rettamente “scientifica”. Se ne possono dare esempi all’infinito: accenneremo qui solo ad alcuni di essi, ma tutto il nostro successivo discorso ne metterà continuamente in luce una serie interminabile, che riguarderà argomenti come le “cariche elettriche”, le “forze nucleari”, l’ “antimateria”, le “particelle virtuali”, l’ “indeterminazione”, e così via, dove le definizioni e le quantificazioni matematiche celano sempre una assoluta ignoranza della reale natura dei fenomeni.

Limitiamoci a ricordare che l’incapacità di inquadrare teoricamente una presunta anomalia come quella manifestata dagli esperimenti di Michelson e Morley sulla velocità della luce (1881-1885) ha generato il “principio” relativistico della non componibilità di essa con la velocità dei corpi normali. Smentito il quale dall’aberrazione della luce delle stelle, si è dovuto truccare questo fenomeno in modo da costringerlo a ricadere nel concetto relativistico. E non si è visto l’errore grossolano di confondere il comportamento della luce ondulatoria, nel primo caso (apparecchiature di tipo interferenziale), con quello della luce corpuscolare, nel secondo (strumenti di rilevazione telescopica): ciò in base a un errore preliminare, che sta nel ritenere che i due comportamenti siano intercambiabili.

Il fotone di Einstein, “privo di massa” perché altrimenti ne avrebbe una infinita alla sua velocità, secondo l’assunto relativistico, non potrebbe avere “energia” (E = ½ mv2), ma ne acquista miracolosamente una (nell’effetto fotoelettrico) grazie alla formula anch’essa empirica che la associa alla frequenza ν (lettera greca ni) attraverso il “quanto d’azione” h di Planck (E = hν ), essendo h un numero ricavato puramente dall’esperienza strumentale. Le due formule, ognuna usata all’occorrenza, configurano nient’altro che un trucco: in questo caso, lo diremmo delle “due carte”. Di qui la “meccanica quantistica”, che però nessuno è mai riuscito a conciliare – come del resto lo stesso Einstein giustamente pensava – con la relatività, salvo che a parole.

Lo scostamento del perielio di Mercurio rispetto alle leggi classiche della meccanica celeste fa gridare a una prova cosmologica della sullodata relatività, ma il calcolo per Marte,che con la relatività non quadra assolutamente, passa sotto silenzio.

Lo stesso rabberciamento si effettua con tutte le altre presunte “prove” della relatività (su ciascuna delle quali torneremo nel momento in cui occorrerà), pur di non prendere atto che l’avvenuto crollo dei suoi postulati fondanti le toglie alla radice ogni motivazione per mantenerla in vita: come gli arzigogoli pseudosperimentali, rivolti a farci credere nella”dilatazione” del tempo (“paradosso dei gemelli”, “orologi (non svizzeri…) su aerei in volo”, “vita media” dei muoni, ecc.) o nell’ “aumento relativistico della massa”.

Cap.1.3 Il lievito miracoloso di tempo e massa.

Occupiamoci in particolare di due ordini di fenomeni per i quali l’incapacità di capire fisicamente i fatti si traduce nella falsificazione del loro significato grazie a trucchi matematici.

a) Il tempo.

Sul tempo relativistico accanite discussioni hanno contrapposto gli stessi giocatori delle tre carte, che non riescono a mettersi d’accordo sulla carta vincente e cercano di imbrogliarsi a vicenda. L’ESPRESSO del 9 aprile 1972, nel supplemento “Colore”, pubblicava un articolo di Giulio Cortini dal titolo L’orologiaio dell’equatore, nel quale egli riferiva di esperimenti che si andavano effettuando con orologi atomici in volo lungo l’equatore in direzioni opposte per provare la “dilatazione” relativistica del tempo. Nell’articolo lo stesso Cortini si lamenta del fatto che i suoi colleghi fisici, relativisti come lui, non sono d’accordo sull’esito dell’esperimento sotto il profilo teorico, se cioè i due orologi, al ritorno dal tour, debbano continuare ad essere sincronizzati oppure trovarsi discordi. Se i sostenitori di una teoria possono litigare tra loro nel prevedere due risultati esattamente contrari della loro stessa teoria, faranno bene a buttarla subito nel cestino, lasciando perdere costosissimi quanto inutili esperimenti. Nella raccolta dell’ESPRESSO si conserva per i posteri l’arrabbiatura dell’illustre fisico, allorché il periodico osò pubblicare nel 1972 una lettera di contestazione inviata dal titolare di queste pagine. La rivista non pubblicò più le repliche sia del contestatore sia di comuni lettori inviate a quell’audace per conoscenza.

Il pasticcio manifesta tutta la sua illusorietà in un altro articolo, pubblicato sul n.750 di SAPERE (luglio 1972: Una nuova interpretazione del paradosso degli orologi, di Angioletta Coradini), nel quale la questione viene dibattuta, concludendosi in senso del tutto opposto ai convincimenti di Cortini con queste illuminanti parole: “Pertanto, secondo questa nuova interpretazione, tanto l’accorciamento della dimensione quanto la dilatazione temporale devono essere considerate come una specie di ‘illusioni ottiche’ prodotte dal moto degli oggetti sull’osservatore fisso.” Se lo dicono loro! Ricordiamo che l’ “accorciamento della dimensione” con la velocità è un’altra delle fissazioni dei relativisti.

Ma torniamo a un cavallo di battaglia della relatività: la “vita media” dei muoni che si allungherebbe col crescere della loro velocità. Chiariamo prima ai lettori una cosa che i fisici con la loro stessa terminologia mostrano di non capire. Quella che essi definiscono “vita media” è in realtà l’ “agonia media” delle particelle: cioè la durata del loro decadimento – come è più esatto dire -, ovvero il tempo che intercorre tra il loro primo manifestarsi e la loro disintegrazione e trasformazione in altre particelle. Il titolare di queste pagine non riuscì a far capire al Cortini, nella polemica di cui sopra, che il muone non nasce quando lui lo vede, ma che è quello il momento in cui comincia a morire. Circa il prima solo il Padreterno conosce la condizione di quel corpuscolo all’interno delle strutture subatomiche che lo comprendevano. Vero è che i fisici contemporanei confondono spesso le loro cognizioni con l’onniscienza di Nostro Signore.

Detto questo, spieghiamo l’arcano in termini fisici invece che miracolistici. È cosa risaputa che, in uno spettrografo di massa – a parità di massa – le particelle veloci sono deviate meno di quelle lente. L’entità della deviazione è il sintomo delle maggiori o minori interazioni subite dalle particelle da parte dei campi attraversati e di altre particelle. Questo è un fatto comunque indiscutibile, che in linguaggio unigravitazionale si spiega col valore stesso delle velocità traslatorie superiore o inferiore a quello limite delle velocità orbitali rispetto ai corpi o corpuscoli attraenti (le particelle veloci sfuggono più facilmente alle attrazioni esterne). Ma interazioni esterne più forti, ovvero minori velocità delle particelle, significano anche decadimento più rapido a causa del maggiore effetto disintegrante di tali interazioni. È solo per questo che i muoni più veloci hanno una più lunga “agonia” e non già per opera di Santo Einstein.

b) La massa.

Le teorie moderne rappresentano la più “logica” catena di errori che si possa immaginare, tale da blindare con un nuovo più grosso errore tutta la serie precedente di abbagli e di storture interpretative dei fenomeni naturali e dei risultati sperimentali.

Abbiamo detto che la pretesa di leggere negli esperimenti Michelson-Morley il comportamento della luce ondulatoria come identico negli effetti a quello della luce corpuscolare provoca il primo errore relativistico di credere la velocità della luce non componibile con quella dei corpi normali. Errore reso inevitabile dal fatto che la fisica odierna ignora assolutamente la reale struttura e funzione del campo ondulatorio della luce. Ma in aggiunta a questo ne nasce un secondo: quello di escludere dalla considerazione dei fisici l’idea che era alla base di quegli esperimenti, rivolti originariamente a provare l’esistenza nel vuoto d’un mezzo-supporto della propagazione della luce, cioè dell’antico “etere”. Poiché si ignorava l’inidoneità di quel tipo di esperienza al fine programmato, l’etere scompariva dall’ordine delle realtà naturali.

Ed ecco la beffa che la natura gioca ai fisici: nel momento in cui essi si trovano ad avere sotto gli occhi la vera prova dell’esistenza dell’etere, sono obbligati a non vederla a causa della precedente negazione e la distorcono con un incredibile artificio matematico come “prova”, ovviamente falsa, della relatività.

Nel vuoto degli acceleratori di particelle, queste – sottoposte a un campo magnetico costante – non mostrano un’accelerazione costante, come richiesto da F = ma, bensì decrescente fino al suo azzeramento al limite della velocità della luce: cioè la velocità delle particelle aumenta sempre più lentamente fino a diventare costante in prossimità della velocità della luce. Ebbene i fisici, invece di vedere fisicamente il fenomeno come prova dell’esistenza di un mezzo resistente, anche nel vuoto, al moto delle particelle, ovvero dell’esistenza di una forza fisica decelerante che cresce con la velocità delle particelle fino all’equilibrio vettoriale con la forza magnetica agente e quindi al raggiungimento di un valore costante della loro velocità, pretendono di farci credere all’aumento matematico di m nella formula newtoniana, così che la massa diventerebbe infinita nel prodotto ma, quando a = 0, rispetto a una sola F agente, quella costante del campo magnetico.

Ai grossi fisici contemporanei bisogna forse fare un esempio estremamente elementare. Le particelle negli acceleratori si comportano rispetto all’etere nello stesso identico modo di un corpo che cade da un aereo rispetto all’aria. L’accelerazione di gravità diminuisce via via per la forza resistente dell’atmosfera, che cresce con l’aumento della velocità di caduta fino all’equilibrio tra la gravità e la resistenza dell’aria, e quindi al raggiungimento di una velocità costante da parte del corpo che cade. È evidente che, se io mi ostinassi a negare l’esistenza dell’aria, farei nascere una relatività delle scimmie, che nulla sanno di tale esistenza come di quella dell’etere (salvo che non siano più avanti della fisica contemporanea). In tal caso, direi che la massa del corpo cresce con la sua velocità di caduta, tendendo ad un valore infinito nell’approssimarsi a una velocità costante. Vedano un po’ quei fisici se è il caso di insistere ancora con la relatività.

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